Giugno 2020 – Fellwarden

 

Con i suoi fuochi estivi ormai accesi e almeno sulla carta in processione aperta verso il picco massimo della loro intensità, in ciò che è stato quasi un chiasmo di natura atmosferica, giugno ha regalato in verità un sorprendente quantitativo di nuova musica dalle squisite fattezze che ironicamente spaziano proprio tra il piacevolmente fresco d’indomite brezze, sussurranti dolori irrecisi e valori dimenticati, ed i picchi di distacco in una solitudine inumana tramite l’irremovibilmente polare – tanto fuori quanto dentro: le temperature esterne hanno infatti subito il proverbiale calo drastico in percezione nell’ultima trentina abbondante di giorni grazie a due album di pura magia ed astrazione in particolare, ovvero quello degli albionici trionfatori della rassegna mensile dello staff di oggi qualitativamente tallonati dalla perla di artico ermetismo elvetico arroccata nella silente distanza delle Alpi, mentre gli altri due dischi che li rincorrono (sebbene entrambi a singola nomina) riescono rispettivamente a riportare in tavola un altrettanto impenetrabile freddo urbano interiore e l’ermeneutica delle cavità del Sé, dalle discretamente assolate terre di Spagna e Grecia.
Si parta dunque senza indugi verso l’ulteriore conoscenza, lo spassionato consiglio e soprattutto l’ascolto della sanguinolenta eleganza di “Wreathed In Mourncloud” firmata dagli inglesi Fellwarden, seguito diretto del bellissimo “Oathbearer” del 2017 nonché secondo imperdibile album dell’ormai consacrato duo uscito per Eisenwald Tonschmiede verso la fine del mese, e giustamente celebrato per la sua unicità tramite completa standing ovation da parte dei cinque figuri che gestiscono il buco oscuro del web in cui vi state rintanando in questo preciso momento: dedicato e consigliato a coloro che sono disposti a perdersi nelle immensità della mancanza per ritrovarsi nelle altezze dello spirito…

 

 

[…] “Wreathed In Mourncloud” è un lavoro dotato di un’anima unica, inscindibile, e di una visione d’insieme ancora più salda e di purissima nitidezza; solo così i Fellwarden potevano riuscire nel risultato di trovare la quadra tra un tono più dimesso e al contempo ancor più enorme, vasto e splendente rispetto al debutto, pur mantenendo completamente scevra di opulenza l’impronta di un sound immediatamente distinguibile – quello in cui decine e decine di minuti passano come un soffio sfuggente nelle lande cumbriane, lasciando sempre aroma, fragranza, motivo per (e voglia di) essere riaffrontati, restituendo con sincera riconoscenza nuove sfumature ad ogni nuovo passaggio nei suoi solchi. Un’esperienza penetrante nell’estetica e poetica dell’assenza, attraverso l’oscurità che conduce verso la luce tra dirupi sublimi, vette panoramiche, silenzio assordante e sentieri inesplorati di valore dimenticato, onore perduto e rimembranze inconsce nella penombra dell’anima; in cui impalpabilità non rima mai con inconsistenza.”

[Leggi di più nella recensione che lo ha eletto disco della penultima settimana della stagione, qui.]

Forti della loro poetica dai risvolti arcaici ed evocativi, i Fellwarden ci riportano nelle loro ammalianti immensità sonore ricche di chiaroscuri dagli eleganti risvolti epici: pochi quanto e come loro sono in grado di destreggiarsi con altrettanta disinvoltura su quel sottile e precario filo sospeso fra soffusa delicatezza e aperta grandiosità, risultato che i nostri ottengono in un sapiente gioco di lente progressioni e cori incesellati con gusto sublime, senza mai perdere di incisività e mordente. Se già al debutto i Fellwarden avevano dimostrato di avere un talento fuori dal comune, con “Wreathed In Mourncloud” ribadiscono non solo la loro grande classe, ma affinano ed elevano un’identità ormai consolidata che rende le sfumature cangianti del Black Metal atmosferico uno strumento mai stantio o superato, ma sempre nuovo e dall’incredibile flessibilità.”

Ritorna la sognante visione dei Fellwarden in “Wreathed In Mourncloud”: il duo inglese riparte senza troppi stravolgimenti dal proprio Black Metal arioso e pregno di atmosfera, visivamente simile ad un viandante su mare di nebbia che deve ancora raggiungere quella cima oltre cui contemplarlo; ed è proprio nel corso dell’opera che avviene la definitiva scalata e ci si imbatte in tutta la drammatica emotività che va a scaglionare ogni singolo brano nella sua sostenuta lunghezza. Non mancano continui richiami di matrice folkloristica, ripartenze intrise di epicità (“Scafell’s Blight”), strazianti muri sonori (“An Elder Reckoning”), per non parlare poi di influenze Post- di agallochiana memoria (come nell’incipit “Pathmaker”), tutte da contorno ad un comparto compositivo che si mantiene coeso per l’intera durata dell’album consentendo a chi ascolta non solo di divenire il padrone delle redini ma anche il protagonista di questa avventura.”

“In un genere dove ormai il rischio maggiore consiste proprio nella monodimensionalità delle atmosfere evocate, i Fellwarden si segnalano anche solo per la vasta gamma di colori impressa in ciascun loro pezzo, ingrediente segreto alla base di un album godibile tanto al primo come al decimo ascolto, se non persino in crescendo. L’ottimo lavoro del duo con le melodie, dirette ma non per questo troppo cheesy, rimane protagonista variando però di continuo la propria identità, tra piacevoli momenti di riflessione in acustico e sprazzi di grande pathos sottolineati dalla bellissima voce pulita. Senza dunque stravolgere le dinamiche dell’Atmospheric Black, grazie al suo umore mutevole “Wreathed In Mourncloud” illustra brillantemente un territorio ed uno stile musicale ottimamente -e geograficamente- sospesi tra la grinta gaelica e la malinconia albionica.”

“Molte le aspettative per un nuovo album da parte del duo inglese, in un conglomerato di attese che non sono state deluse da “Wreathed In Mourncloud” bensì ripagate dall’espansione del Black Metal atmosferico già in ottima mostra sul debutto, questa volta impreziosito da un sobrio folklore tipicamente albionico: quello in cui la malinconia regna sovrana non solo nei momenti più calmi e acustici, ma anche in quei frangenti in cui la band decide di accelerarne i ritmi, come a voler emulare emblematiche tempeste estive roboanti ma necessarie. Nell’impersonificarle, la voce di The Watcher è sempre una garanzia, qui in spolvero specialmente nelle parti pulite che donano estrema profondità all’insieme, in un album sapientemente sospeso tra wanderlust e sehnsucht che è più che valida riconferma del nome Fellwarden.”

L’inafferrabile sincretismo ruvido e sinestetico che è suono dell’inverno, bagliore di gelo, sentiero di silenzio e monte di spersonificazione artistica; in altre parole, il migliore in assoluto dei tasselli nell’eremitico puzzle Paysage D’Hiver. Wintherr si perde nella foresta per due ore di viaggio splendido ed incanto trascendentale più ampio della vita. Il risultato è “Im Wald”, fuori per Kunsthall e consigliatissimo da tre quinti della redazione.

[…] Preservando quell’atmosfera straniante, cruda ed unica che è centro focale della poetica Paysage D’Hiver e dell’essenza che questa vuole e soprattutto riesce a trasmettere, nonché della natura caliginosa e proprio per questo d’insuperabile interpretazione arbitraria del progetto, “Im Wald” è un lungo viaggio universale ma allo stesso tempo singolare, intimo e diverso da qualunque altro a seconda del cambio di prospettiva e storia personale tra creatore e fruitore, che hanno medesima ultima ratio regum nel processo; un mondo osservabile come un prisma in sfumature e proiezioni di ghiaccio -e di sé- in cui non si tratta di comprensione, bensì di percezione. Oggi ancor più di ieri, dunque, usare l’immaginazione: questo l’imperativo. Perché toltaci questa non resta più nulla.”

[Leggi di più nella recensione che lo ha eletto disco dell’ultima settimana della stagione, qui.]

“I Paysage D’Hiver ci conducono in un solitario ed emozionante viaggio dalla percezione ambivalente e personale: tanto è naturale abbandonarsi e lasciarsi sovrastare dalle ipnotiche e lunghe composizioni abbacinanti come come il freddo sole invernale, quanto facile è ritrovarsi concentrati, dopo più di un’ora di ascolto, a godere con attenzione e devoto trasporto dei rintocchi di “Le Rêve Lucide”. In un alternarsi sparso di tormentose cacofonie bianche e impalpabili silenzi che si disciolgono al suolo, il guizzo più tangibile e marcato in primo piano sulla spessa coltre non può che sublimare definitivamente l’esperienza, imbrigliando fin da subito e dando ad “Im Wald” un potenziale pressoché sconfinato in fatto di immersività, scoperta e magia.”

“Quando incomincia a mordere l’inverno, e nella notte gelida scricchiano i sassi; quando gli stagni son neri, e gli alberi tutti spogli, è nefasto per le Terre Selvagge avviare i propri passi. – Doveroso citare il Professor Tolkien, con una poesia tanto appropriata, se si vuole parlare di Paysage D’Hiver, da sempre un progetto d’integrale devozione al mondo oscuro dell’inverno all’interno di cui a pochissimi è concesso l’ingresso. Controparte sonora è il personale reame di freddo del progetto, un regno che si erge da ben vent’anni e che raggiunge il suo apice con “Im Wald”, doppio full-length in cui il solitario regnante dei ghiacci cerca di condurre, chi ne è degno ascoltatore, attraverso i propri domini incontrastati: dove l’efferatezza delle fredde chitarre che non concede pietà, perfetta bufera di neve, e si alterna come da tradizione a momenti di assoluta pace Ambient, in cui poter ammirare il paesaggio nella sua quiete prima di una nuova e ferale tempesta; un vero e proprio viaggio verso il cuore del regno invernale, che raggiunge il suo picco nella trionfale “Stimmen Im Wald”, probabile apice compositivo dell’intero lavoro. In breve: una prova di assoluta maestria da parte del musicista svizzero.”

Gli spagnoli Aversio Humanitatis col loro secondo full-length, “Behold The Silent Dwellers” che è anche debutto per le attente mani di Debemur Morti Productions uscito il 17 giugno, fattisi attendere la considerevole cifra di nove anni secchi dal debutto “Abandonment Ritual” per poter annerire ed appesantire il loro sound sospeso tra decadenza urbana fin de siècle ed interiorizzato malessere metafisico, ma soprattutto per convincere appieno il nostro Feanor che ce lo consiglia così:

Il nuovo monolite dei madrileni Aversio Humanitatis è un pugno di grigio composto da sei tracce quadrate e granitiche, sei tracce che non concedono respiro per via della sensazione di soffocamento che emanano; il merito è della miscela stessa proposta dagli spagnoli, che sia nei momenti forsennati, sia in quelli più pacati, eclettici e riflessivi, punta a trasmettere in musica quella sorta di caligine e nichilismo urbano – un monolite di grigiore in cui non mancano tuttavia sfumature e svariate sfaccettature tecniche nella compattezza della sezione ritmica, donate anche dallo scream roco e rabbioso sputato dal cantante-bassista (specialmente nella prima traccia “The Weaver Of Tendons” – la migliore del lotto, secondo il parere di chi scrive) e sempre valorizzate dalle doti di una buonissima produzione in fatto di calibrazione.”

Con una prolificità costante che in ambito estremo ha del praticamente incredibile”, continua Feanor parlandoci anche dei greci Acherontas, e con inaspettata citazione in copertina, i cinque di Atene mai seduti sugli allori ritornano grazie a “Psychic Death” (sottotitolato “The Shattering Of Perceptions” e pubblicato su Agonia Records) a scadenza ormai biennale per giungere all’ottavo full vomitato in meno di tredici anni (nonché quarto in cinque).

“Psychic Death”, ottimo seguito in linea con il loro precedente “Faustian Ethos”, vede gli Acherontas ampliare concept e suono, rendendo al contempo la musica leggermente meno ritualistica e molto più diretta (grazie al lavoro delle chitarre, qui assolute protagoniste) ma sempre in grado di ricreare scenari sulfurei ed evocativi sopratutto per l’azzeccata melodia sinistra made in Sweden che ben si incastra nei fraseggi di varia natura donando tanta dinamicità ed altrettanta atmosfera. Al contrario del predecessore, le sei corde in particolare svelano anche delle insolite influenze di robusto Heavy Metal che si svelano disperse all’interno dell’album, rendendolo estremamente variegato all’ascolto integrale, mentre ottima come sempre finisce per essere la prova vocale del leader V. Priest, versatile in ogni singolo frangente di tutte le canzoni.”

Con quelli che sommati valgono nella pratica come due (o tre?) effettivi dischi del mese e che terranno noi per primi impegnati per ancora un bel po’ di tempo a venire, raggiunti da due contendenti di spessore per i più affamati, il biglietto per una vacanza ininterrotta tra i misteri inesplorati, ancora celati dalle fresche nebbie e brezze d’Albione, indurite dal viaggio senza fine sulle sconfinate bianche coltri di algida perdizione, guidati dal timore nel buio di una foresta alpina innevata per marcare la distanza con l’alienazione urbana e i pericoli spirituali che questa sottende (dove risiede, del resto, la vera de-umanizzazione che tanto temiamo e glorifichiamo?), nonché -perché no?- per perdersi proprio in ciò che conta davvero, è stato staccato. Ricordate che il controllore potrebbe chiedervelo, quindi nel mentre non scordate di timbrarlo qui.
Noi ci si ritrova alla prossima stazione tra qualche settimana. Intanto… Niente male per un mese estivo, no?

 

Matteo “Theo” Damiani

Precedente Pagan Storm News: 03/07 - 09/07 Successivo Weekly Playlist N.27 (2020)